Consigliato ad un pubblico 14+
“Andata e ritorno e dintorni” è un giro più largo che lungo sull’esperienza del carcere, una riflessione sulle libertà, ricordi con fine pena mai, l’amare oltreconfine. Il desiderio, il sogno, fantasticare e confondere realtà e fantasia per non “morire” dentro la ristrettezza, non solo fisica, delle quattro mura. Un viaggio, quindi, per resistere, sopravvivere e venirne fuori.
“E come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno come le rose…” Non so perché ma questi versi mi sono balzati in testa quando ho finito di leggere “Andata e ritorno e dintorni”. Sarà forse per la sua brevità (82 pagine), non che il racconto di Giovanni duri quanto una canzone di De André ma le emozioni che ti abbracciano possono essere paragonabili. Come se leggere un libro fosse bere un buon cabernet insieme a un vecchio amico o come farsi un giro in macchina, magari sotto una pioggia battente, cullati dal ritmo sincopato dei Massive Attack o dalle rasoiate perfette di Disintegration dei Cure, canzone citata nel testo. In realtà ero “preparato”. Giovanni mi concesse l’onore di leggere il suo racconto ben prima della pubblicazione però adesso ne parlo così come si parla dei fiori, quando prima erano soltanto semi. Fiori selvatici, sia chiaro, fiori di campo, come quelli che diventavano capolavori, luce e sogno sotto gli schizzi vorticosi di Van Gogh. Ecco, di quei fiori stiamo parlando. O se volete, I fiori del male di Baudelaire, che Giovanni anche quello ti sa raccontare, i fiori del male. Perché lui è un pessimo elemento, è quell’archetto lasciato dal whisky lungo le pareti del bicchiere e che scivola giù lentamente, attirato sul fondo dalla forza di gravità. Giovanni è quello che Elena saluta con un “Buongiorno, figlio di puttana!”, perché lo conosce e se lo può permettere. Una cosa è chiara da subito: i fighetti restino fuori. Giovanni apre la porta della sua casa e ti invita ad entrare, nel frigo sono rimaste due o tre birre ma ce le faremo bastare. Ti invita ad entrare perché lui ama i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme. Come se fosse Bukowski in persona a farti entrare in casa sua, e fa niente se è rimasta solo la luce di una candela smozzicata. Guarderemo le ombre, parleremo in controluce, saliremo insieme i ventiquattro gradini di una scala stretta e ripida, facendo attenzione a non cadere. Quelle scale che a farle con lei diventano una danza. Ed è come se stessi leggendo Big Sur di Kerouac mentre gira un vecchio vinile dei Kinks. Saremo intimi, saremo per pochi, saremo come sempre siamo stati. Dateci solo una penna e un foglio, o un piccolo computer portatile per buttare giù quattro versi ubriachi. E chi se ne frega se il libro è lungo quanto un capitolo. Non è mica Faulkner lui. Ne verranno altri, di capitoli, perché Giovanni si catapulterà nuovamente nella vita: “quella dinamica, fatta di esseri umani apparentemente liberi, liberi di amare o essere amati, di essere sereni o soffrire, di toccarsi e respingersi, rispettarsi o meno. Gente comune, insomma, e tra questi lui, con in testa una condanna e un cumulo di argilla da rimodellare nel petto”. Non sarà Faulkner, però da quel pertugio, dietro le sbarre della cella 302, si gode un tramonto che infiamma. E sono tutte cose che occorrerà scrivere. Ancora. Ancora bisognerà fissare un appuntamento con Marianne, i cui passi sul manto pietroso di una Padova by night sono musica jazz, Marianne che non parla semplicemente ma “alita la sua anima un po' alla volta per non farsela sfuggire”. Ancora bisognerà salire su un treno pieno di gente dalle vite travagliate. Bisognerà guardarli negli occhi e domandarsi dove diavolo saranno diretti, se viaggiano perché hanno una meta o perché non possono fare a meno di muoversi. Si, insomma, bisognerà continuare a porsi domande inutili e necessarie allo stesso tempo. Che è sempre una questione di tempo e punti di vista, un balletto di prospettive e modi di elaborare gli accadimenti. E poi ci sono cose che durano e altre che vivono solo un giorno, come le rose. P.S.: E poi Giova, abbiamo una cosa in comune: il civico 28 Luigi Pisanelli, scrittore
“E come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno come le rose…” Non so perché ma questi versi mi sono balzati in testa quando ho finito di leggere “Andata e ritorno e dintorni”. Sarà forse per la sua brevità (82 pagine), non che il racconto di Giovanni duri quanto una canzone di De André ma le emozioni che ti abbracciano possono essere paragonabili. Come se leggere un libro fosse bere un buon cabernet insieme a un vecchio amico o come farsi un giro in macchina, magari sotto una pioggia battente, cullati dal ritmo sincopato dei Massive Attack o dalle rasoiate perfette di Disintegration dei Cure, canzone citata nel testo. In realtà ero “preparato”. Giovanni mi concesse l’onore di leggere il suo racconto ben prima della pubblicazione però adesso ne parlo così come si parla dei fiori, quando prima erano soltanto semi. Fiori selvatici, sia chiaro, fiori di campo, come quelli che diventavano capolavori, luce e sogno sotto gli schizzi vorticosi di Van Gogh. Ecco, di quei fiori stiamo parlando. O se volete, I fiori del male di Baudelaire, che Giovanni anche quello ti sa raccontare, i fiori del male. Perché lui è un pessimo elemento, è quell’archetto lasciato dal whisky lungo le pareti del bicchiere e che scivola giù lentamente, attirato sul fondo dalla forza di gravità. Giovanni è quello che Elena saluta con un “Buongiorno, figlio di puttana!”, perché lo conosce e se lo può permettere. Una cosa è chiara da subito: i fighetti restino fuori. Giovanni apre la porta della sua casa e ti invita ad entrare, nel frigo sono rimaste due o tre birre ma ce le faremo bastare. Ti invita ad entrare perché lui ama i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme. Come se fosse Bukowski in persona a farti entrare in casa sua, e fa niente se è rimasta solo la luce di una candela smozzicata. Guarderemo le ombre, parleremo in controluce, saliremo insieme i ventiquattro gradini di una scala stretta e ripida, facendo attenzione a non cadere. Quelle scale che a farle con lei diventano una danza. Ed è come se stessi leggendo Big Sur di Kerouac mentre gira un vecchio vinile dei Kinks. Saremo intimi, saremo per pochi, saremo come sempre siamo stati. Dateci solo una penna e un foglio, o un piccolo computer portatile per buttare giù quattro versi ubriachi. E chi se ne frega se il libro è lungo quanto un capitolo. Non è mica Faulkner lui. Ne verranno altri, di capitoli, perché Giovanni si catapulterà nuovamente nella vita: “quella dinamica, fatta di esseri umani apparentemente liberi, liberi di amare o essere amati, di essere sereni o soffrire, di toccarsi e respingersi, rispettarsi o meno. Gente comune, insomma, e tra questi lui, con in testa una condanna e un cumulo di argilla da rimodellare nel petto”. Non sarà Faulkner, però da quel pertugio, dietro le sbarre della cella 302, si gode un tramonto che infiamma. E sono tutte cose che occorrerà scrivere. Ancora. Ancora bisognerà fissare un appuntamento con Marianne, i cui passi sul manto pietroso di una Padova by night sono musica jazz, Marianne che non parla semplicemente ma “alita la sua anima un po' alla volta per non farsela sfuggire”. Ancora bisognerà salire su un treno pieno di gente dalle vite travagliate. Bisognerà guardarli negli occhi e domandarsi dove diavolo saranno diretti, se viaggiano perché hanno una meta o perché non possono fare a meno di muoversi. Si, insomma, bisognerà continuare a porsi domande inutili e necessarie allo stesso tempo. Che è sempre una questione di tempo e punti di vista, un balletto di prospettive e modi di elaborare gli accadimenti. E poi ci sono cose che durano e altre che vivono solo un giorno, come le rose. P.S.: E poi Giova, abbiamo una cosa in comune: il civico 28. Di Luigi Pisanelli, scrittore
Una via di mezzo tra un noir e un sogno erotico..come una giornata grigia che si colora qua e lá di sensazioni di desiderio..