Il protagonista è testimone e poeta di un mondo scomparso. Il mondo contadino, dal quale è voluto fuggire per bisogno di emancipazione e di riscatto. Ma il ricordo e la nostalgia non lo hanno mai abbandonato. Il romanzo confessione “Le strade bianche” è nato dal bisogno di ridare vita alla sua famiglia patriarcale, al nonno che raccontava di incontri con i briganti, al padre lavoratore instancabile che oltre a curare la terra, faceva da factotum ai contadini del villaggio, sapeva aiutare a far nascere vitelli e agnelli. Racconta la tragedia della guerra che sconvolse ogni cosa e uccise davanti ai suoi occhi i fratellini. Dalle strade bianche si andava in città e si tornava in campagna. Carlo, ormai avanti negli anni, torna a rivedere la grande casa patriarcale, ma trova campi silenziosi e tristi. Il Canto degli uccelli non più da sottofondo musicale alla fatica contadina, solo le cornacchie stridono volteggiando sulle discariche abusive sparse un po’ ovunque e, dalle orride villette, cani feroci lacerano quel silenzio di morte.
“Le strade bianche”. Il titolo rimanda, non inconsapevolmente, ad un grande sulmonese, a Capograssi, che quelle strade ha amato e raccontato a Giulia:”…le belle strade maestre bianche e larghe che si perdono lontano, che si perdono nella campagna, si affogano nel verde, che salgono e che scendono, sono tra le più belle del mondo rurale e ti fanno sognare lunghi sogni di pace e grandi soste di riposo e di tranquillità, al canto di tutte le cose.” Lungo una di quelle strade Carlo abitava. Nella grande casa patriarcale di Zappannotte ha vissuto l’epopea dell’ultima generazione contadina. Ha voluto affrontare la difficile odissea dell’esodo, affascinato dalla città, contagiato dal desiderio di conoscere e spinto dalla volontà di riscatto. Ma quel mondo duro, con i suoi valori di rude socialità, di mutualità nel lavoro, di religiosità arcaica, di antiche affabulazioni, e quella natura con le sue albe e i suoi tramonti dorati, non lo hanno mai abbandonato. Il rapporto con quel mondo non si è mai chiuso. Continua a vivere in lui in maniera anche conflittuale. Fra soddisfazione per il suo riscatto, rimpianto e un inconsapevole senso di colpa. Forse il libro vuole proprio perseguire una interiore pacificazione con quei personaggi familiari che nella sua memoria continuano ad abitare la vecchia casa. Il nonno che raccontava di incontri con i briganti lungo la via per Napoli, il padre , instancabile lavoratore, abile nei parti impossibili a far nascere vitelli e agnelli, che da quella casa era partito per la guerra alla Russia sterminata. A piedi l’aveva percorsa nella neve e nella bufera, miracolosamente sopravvissuto, doveva raccontare pietose bugie alle vedove dei dispersi. E che aveva sperato che Carlo, il figlio maggiore, lo avrebbe aiutato negli anni della vecchiaia. La nonna, che nata proprio davanti ad un’antica chiesa, non ne aveva perso nemmeno una celebrazione religiosa. Le aveva seguite tutte: messe, nozze e funerali. Aveva così appreso infinite storie della Bibbia che raccontava con una devozione arcaica. E poi zie e zii e i bambini, tanti bambini. Che la guerra uccide appena fuori quella casa vicino alla stazione, diventata l’obiettivo dei bombardamenti alleati. E Carlo vive la tragedia del primo di quei bombardamenti mentre tutti corrono per raggiungere le “bocche di Roma”, la galleria che potrebbe essere la salvezza. Ma non riescono a raggiungerla. Scrive pagine di una drammaticità assoluta: “Con boati assordanti caddero le prime bombe (…). Le donne cominciarono a strillare e a pregare, i bambini a tremare. Un fumo acre invase la campagna (…). Un nugolo di polvere e di fumo aveva oscurato cielo e terra e gli impediva di distinguere le persone che si trovavano vicino a lui. Sentì un forte odore di bruciato e, appena il fumo e la polvere si diradarono, vide, con raccapriccio, lo scempio di quei corpi sparsi intorno a lui (…). Quando vide l’espressione dei visi , e le pose innaturali che avevano assunto i suoi cari, capì con sgomento che qualcosa di terribile e irreparabile era successo. La terra era entrata dovunque: nella bocca e negli occhi di tutti, tanto che riusciva difficile distinguere una persona dall’altra (…) le urla laceranti delle zie che si strappavano i capelli e chiamavano i nipotini e le cognate, lo fecero rabbrividire. Quelle povere donne emettevano lamenti e rabbiosi mugolii di disperazione che gli ricordavano il rantolo del maiale scannato dal babbo sull’aia una mattina. ”No! Non dormono così i bambini! Con gli occhi aperti non si dorme! Cos’hanno i miei fratellini che non si muovono più”, urlò un istante dopo, riscuotendosi.” Ma la vita , nonostante tutto, continua, e Carlo, ferito nell’animo e nel corpo da quella bomba che gli ha lacerato la membrana di un orecchio, rendendolo sordo e permanentemente sofferente, racconta le sue tante irrequiete metamorfosi. Da contadino a studente, ad aspirante pittore, ad emigrante nel mitico nord, ad operaio. Finalmente, la vita, fino ad allora matrigna, gli fa una straordinaria sorpresa. Un amico che conosceva la sua passione per la lettura gli offre l’opportunità di gestire il nascente Centro Servizi Culturali. E Carlo, dopo tante umiliazioni, tragedie personali e familiari, cambia vita. Entra a pieno titolo nel mondo della cultura, anzi se ne fa promotore appassionato, combattendo l’analfabetismo antico e di ritorno. E’ il Carlo che tutti abbiamo conosciuto. Ma il libro ci fa scoprire un Carlo sconosciuto, testimone e poeta di un mondo estinto. Racconta le tante storie familiari e del villaggio. La vita collettiva, intersecata dalle sue speranze e dalle sue delusioni, dalle storie d’amore più sognate che vissute. Una rara sincerità attraversa tutto il romanzo-confessione, ne costituisce uno dei pregi, insieme alla capacità di coinvolgere e di commuovere.