Nella Silloge “Versi Scalzi” la fragilità della natura umana si veste dell’elegante contraddizione fra la vulnerabilità dell’uomo, che procede a piedi nudi e che porta in sé la forza e la consapevolezza del suo sentire e l’eco fragile dei suoi sentimenti, che si dipanano lungo la caducità di un tempo che pensiamo di possedere ma che non è, tuttavia, infinito o effimero, ma solo estremamente significativo del nostro passaggio nel cuore di chi ci ama. L’immagine della penna come spada, in questo contesto, palesa l’intensità di oltrepassare la nostra prevedibile transitorietà armandoci di umiltà e coraggio, utilizzando la rinnovata consapevolezza di noi stessi come passaporto vivo del nostro stare al mondo per cogliere, con occhi spalancati dalle emozioni, i particolari che ai più sfuggono. Il fine è quello di andare oltre al limite certo delle abitudini per ritrovarci esuli forse, ma nuovamente ricomposti in diversi e accettati equilibri. Viene subito in mente l’immagine-metafora del kintsugi, l’arte giapponese del riparare i vasi andati in pezzi mediante saldature d’oro. Dalla rottura in frammenti minuscoli e disuguali nasce la loro immutata bellezza, un insieme di cicatrici impreziosite che danno nuova vita agli oggetti: attraverso le linee di frattura l’oggetto riparato, proprio come i Versi Scalzi, diventa unico e irripetibile, per via della casualità con cui la ceramica - le parole della Silloge - si frantumano e ricompongono, ricreando forme diverse e irregolari, ramificate decorazioni che vengono esaltate dal metallo prezioso che cementifica il fluire poetico. Ogni ansa, così come ogni capoverso, ha la propria trama da raccontare, ognuna la propria bellezza da esibire, questo proprio grazie all’unicità delle crepe-parole che si creano quando l’oggetto si rompe, come fossero ferite-speranze che lasciano tracce diverse su ognuno di noi ma che alla fine, inderogabilmente, ci restituiscono alla vita.