Scrivendo questo libro, ho detto solo la verità, ho cercato costantemente di non farmi trascinare dal fascino della narrativa, che spesso porta gli autori fuori dalla realtà. Ho cercato di tenere sempre presente un proverbio calabrese, che nel suo dialetto originale, tradotto in italiano, dice “chiunque la racconti ne aggiunge”. Io avevo ben poco da aggiungere gli sguardi della gente ammalata di cancro che da più di quarant’anni ho incontrato e continuo ad incontrare, da quando ho iniziato a fare il rappresentante, si sono stampati nella mente, come un grido d’aiuto, a cui non esiste un soccorso.
Il malato di cancro è maledettamente intelligente, se cerchi di sfuggire il suo sguardo, capisce che hai paura per lui, se però lo guardi con coraggio, sa che lo fai per fargli credere e nascondere che non hai paura per lui.
La nostra impotenza difronte a questo male, ed altri non chiamati cancro, ma altrettanto gravi, produce nel malato solo angoscia, spesso piange di nascosto, di notte, quando è solo, quando non lo vediamo, non vuole farcelo pesare.
Alla fine però, è lui a sollevarci da questo peso, è lui che ci dice “devo morire, è tutto inutile devo morire”. Allora ci viene solo voglia di piangere, non sappiamo e non possiamo fare altro che avere voglia di piangere.
Cerchiamo però di non farlo, ci sforziamo tremendamente per non farlo, tentiamo di essere bugiardi. Lui però lo sa, conosce già le nostre possibili risposte, le accetta se poi ridiamo come se lui avesse fatto una battuta, lui ci accompagna con un sorriso dolce e pieno di compassione. Ci vede patetici e impotenti e ci perdona di non aver saputo fare per lui nient’altro che piangere.