La montagna è la protagonista della mia storia, contiene la sua bellezza dell’ascendere alla vetta che sfiora il cielo e ad esso si congiunge nell’immensità, lo è anche nella sua drammaticità, nella sua impietosa violenza quando si scatena la tempesta e nella sua brutale essenzialità quando ogni filo d’erba deve essere difeso con la verga e con le minacce, perché i propri animali possano abbeverarsi in luoghi ove l’acqua non basta per tutti, e poi c’è la paura, la paura di un bambino che all’improvviso viene sradicato dalla madre, dai compagni di scuola, dai giochi e trasferito in una montagna, dentro la sua solitudine, estraneo a quel mondo e di cui adesso fa parte. La sua esistenza ha ora in sé la saga dell’antico popolo siciliano, ora echi del linguaggio aulico dei menestrelli medioevali, ora richiama i canti bucolici della Grecia arcaica, dove i pastori, in pascoli impervi e assolati e nella solitudine siderale delle notti fredde, erano filosofi e poeti cantori, ma spesso brutali ed irascibili perché la loro esistenza dipende dagli agenti atmosferici, dalle piogge che fanno spuntare l’erba o le piantine di grano che garantiranno il pane per la famiglia nei lunghi mesi invernali. È anche la storia di un bambino che la sorte ha fatto diventare uomo troppo presto per cui deve trattenere il pianto, perché in quei luoghi ad un uomo non è concesso piangere. In quelle lunghe notti invernali gli anziani inventavano racconti o riportavano episodi eclatanti realmente accaduti o inventati ma verosimili.