Secondo un modello imposto dal sistema massmediale, la vita trasposta in racconto deve essere fuori dalla normalità oppure non ha motivo per essere raccontata. Lo scritto di Angela Guglielmi si ribella a tale schema e s’immola nel tentativo di convertire la banalità del quotidiano, rendendola degna di essere raccontata in iscritto. Buio nel sole narra di piccoli drammi e piccole gioie, vita fatta di ripetitività biologica, una storia senza eroi e senza una morale, se non il monito a tenere salde le proprie origini, gestita con vaghi sapori tratti dalla commedia edoardesca, dove ogni microcosmo assume una valenza universale; il racconto su un piccolo paese e una giovane protagonista –Nalir- assurti a categorie di un’umanità del dopoguerra che riprende vita dai propri sogni, giammai destinati realizzarsi pienamente poiché altrimenti tradirebbero la propria valenza onirica.
La Guglielmi tende a stigmatizzare usi e parole e proverbi –che sottendono a forme logiche oramai disantropizzate-, eredità della memoria di un popolo che non c’è più, quell’etnia salentina scomparsa tra le pieghe di un’italianità globalizzata. Non è possibile accettare la perdita delle parole, dei modi di dire, del linguaggio; essere salentini è conoscere i luoghi natii, aver gustato gli antichi sapori delle ricette dimenticate, i suoni di nenie che non sono più cantate: è innanzitutto parlare la lingua dei propri antenati, rompendo l’illusione che dimenticare le tradizioni possa lasciare posto a sentimenti nuovi e migliori.